Due anni di pandemia, tutti ancora sulla stessa barca
Amedeo Lomonaco, il mio articolo su VaticanNews – L’11 marzo del 2020 l’Oms usava per la prima volta il termine “pandemia” per definire l’epidemia di Covid-19. Il professor Roberto Cauda: l’emergenza sanitaria ci ha mostrato la nostra fragilità. In questi due anni le parole del Papa “hanno dato tanta consolazione a molte persone nel mondo”.
Sono passati due anni da quando il Covid-19 è stato dichiarato una pandemia dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: a causa del virus sono morte più di 6 milioni di persone. Il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus ha dichiarato che “sebbene i casi e i decessi segnalati siano in calo a livello globale e diversi Paesi abbiano revocato le restrizioni, la pandemia è tutt’altro che finita”. A Vatican News il professor Roberto Cauda, direttore del Reparto di Malattie Infettive del Policlinico Agostino Gemelli di Roma, sottolinea che in questi due anni sono stati compiuti dalla comunità scientifica passi importantissimi ma non si deve abbassare la guardia.
Sono passati due anni da quando il Covid-19 è stato dichiarato una pandemia. Quali sono i tratti essenziali di questo periodo e quali prospettive si stanno delineando?
Abbiamo passato due anni veramente molto difficili. In questo ultimo periodo i venti di guerra che soffiano dall’Ucraina hanno un po’ tolto la ribalta alla pandemia che comunque c’è ancora, anche se in netto miglioramento almeno nel mondo occidentale. In questi due anni abbiamo imparato moltissimo. Sono stati prodotti oltre duecento mila articoli che hanno permesso di fare maggiore luce e chiarezza su questa malattia. E, soprattutto, si sono fatti, in tempi molto brevi, dei vaccini che hanno dimostrato pienamente la loro efficacia. Se guardiamo a quello che è avvenuto in quest’ultima quarta ondata, vediamo che ad un numero elevatissimo di contagi non corrisponde un aumento di ricoveri e di decessi che hanno caratterizzato le precedenti ondate. Quindi abbiamo imparato molto: abbiamo avuto la svolta grazie ai vaccini e disponiamo, inoltre, di anticorpi monoclonali e di farmaci che possono non prevenire la malattia, ma curarla al meglio una volta che si sviluppa.
Cosa ha insegnato, in particolare, questo dramma della pandemia al mondo dei medici e degli operatori sanitari?
La nostra fragilità e, soprattutto, che bisogna essere preparati a degli eventi eccezionali: forse nella nostra testa – parlo per esperienza personale – credevamo di avere una sicurezza nei confronti delle malattie infettive che ci derivava dai tanti presidi che la scienza ci ha messo a disposizione. Purtroppo questo virus, così mutevole e che si trasmette in modo così facile, ha fatto crollare le nostre certezze. Inoltre ci ha insegnato il valore della scienza come dimensione importante per poter affrontare le sfide che ci vengono da questa pandemia, come da tante altre malattie di natura infettiva. Ci ha insegnato la necessità di non abbassare mai la guardia. Dal punto di vista tecnico, ci ha insegnato anche una cosa: gli ospedali sono importantissimi, ma è anche importante che ci sia nella comunità un tessuto di possibilità per curare le persone non così gravi dal dover andare in un ospedale, ma che comunque non possono essere lasciate da sole. Si deve quindi potenziare al massimo la medicina del territorio grazie ai medici di medicina generale, ai pediatri ma costruendo intorno a queste figure delle strutture adeguate per far fronte alle sfide che, eventualmente, si potranno ripresentare in futuro.
Non bisogna abbassare la guardia. Un campanello d’allarme per tutti i Paesi, lanciato dall’Oms, è quello, in particolare, di rafforzare i servizi ed il supporto per la salute mentale…
Sono tante le sfide: quella della salute mentale è una sfida alla quale non possiamo sottrarci. In questa era della globalizzazione, dovremmo cercare di avere degli approcci che siano, il più possibile, non divisivi ma che portino le persone e gli Stati ad avere atteggiamenti comuni. Quello che avviene in alcune regioni del mondo – penso all’Africa dove la vaccinazione non è così frequente come da noi – ci deve riguardare. L’impegno alla solidarietà, tante volte ricordato da Papa Francesco e da organizzazioni come l’Oms, dovrebbe essere un obbligo perché la nostra salute passa attraverso la salute degli altri, anche di coloro che sono distanti.
La preghiera di Papa Francesco nel marzo del 2020, le sue meditazioni durante la Messa a Casa Santa Marta, le parole del Pontefice per i medici, gli infermieri e gli operatori sanitari, più volte definiti “eroi”, hanno scandito questi due anni scossi dall’emergenza non solo sanitaria…
Sicuramente l’immagine che tutti noi abbiamo è quella di Papa Francesco in una piazza San Pietro vuota, sotto una pioggia battente, con il Cristo ligneo. È una immagine che rimane nel cuore di tutti noi, degli operatori sanitari e di tutti i cittadini del mondo. È stata una invocazione che ha toccato i cuori di tante persone. È stata una preghiera di conforto per i malati e per gli operatori sanitari che sono stati chiamati giustamente eroi. Io credo che noi operatori sanitari abbiamo fatto il nostro dovere però in quelle condizioni, probabilmente, qualche cosa di più del nostro dovere è stato fatto. Le parole del Papa sono state uno sprone e hanno dato tanta consolazione a molte persone nel mondo.