Dall’Osservatore Romano del 25 agosto 2021
Cinque anni fa, in un’intervista concessa al quotidiano cattolico francese «La Croix», Papa Francesco invitava a interrogarsi sul modo in cui «un modello troppo occidentale di democrazia è stato esportato in Paesi come l’Iraq, dove un governo forte già esisteva in precedenza. Oppure, in Libia, dove esiste una struttura tribale». «Non possiamo andare avanti — aggiungeva nell’intervista — senza prendere in considerazione queste culture». Domande sempre attualissime, in particolar modo nei giorni in cui si è reso evidente il fallimento del tentativo americano e più in generale occidentale, in Afghanistan. Si può esportare, in questi Paesi, la democrazia con le armi? Oppure la guerra si rivela sempre un’avventura senza ritorno? A guardare la situazione in cui versa oggi l’Afghanistan ma anche la devastazione a cui stato sottoposto l’Iraq, si dovrebbe riconoscere la profetica lungimiranza del “magistero di pace” degli ultimi Pontefici. «Per fare la pace — ha detto Papa Francesco nel 2014 — ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra. Ci vuole coraggio per dire sì all’incontro e no allo scontro; sì al dialogo e no alla violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni; sì alla sincerità e no alla doppiezza. Per tutto questo ci vuole coraggio, grande forza d’animo».
«Le ragioni della pace sono più forti di ogni calcolo di interessi particolari e di ogni fiducia posta nell’uso delle armi». Questa convinzione, espressa nel 1963 da Giovanni XXIII nella lettera enciclica Pacem in terris in un periodo di forte tensione internazionale, e rilanciata da Papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti, risuona oggi più forte che mai di fronte allo scenario afghano, sull’orlo della guerra civile. Le tribolazioni della nazione afghana non possono e non devono sfociare in un nuovo conflitto. Anche quando soffiano venti di guerra, il futuro si deve edificare e cercare nella ricerca del dialogo, della pace. «Non è certo con le bombe — afferma nel mese di gennaio del 1992 Giovanni Paolo II rivolgendosi al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede — che si può costruire l’avvenire di un Paese». Quando vengono pronunciate queste parole l’anno 1991 si è appena concluso nel frastuono delle armi con immagini sconvolgenti che mostrano popolazioni martoriate dalla guerra in Jugoslavia.
Oggi altre strazianti immagini giungono dall’Afghanistan, dove la disperazione di uomini e donne attaccati ai carrelli degli aerei in partenza da Kabul si somma a quella di madri e padri che lasciano i loro figli tra le mani di soldati e diplomatici stranieri, affidandoli all’ignoto. Ma anche tra le ombre più oscure e l’angoscia più profonda, si possono scorgere le luci della speranza e le ragioni della pace. È possibile, chiede Papa Francesco durante la veglia di preghiera per la pace nel 2013, percorrere la strada della pace ed uscire da una spirale di dolore e di morte? «Sì, è possibile per tutti!». «Ognuno — aggiunge in quell’occasione — si animi a guardare nel profondo della propria coscienza e ascolti quella parola che dice: esci dai tuoi interessi che atrofizzano il cuore, supera l’indifferenza verso l’altro che rende insensibile il cuore, vinci le tue ragioni di morte e apriti al dialogo, alla riconciliazione: guarda al dolore del tuo fratello e non aggiungere altro dolore, ferma la tua mano, ricostruisci l’armonia che si è spezzata».
Anche il popolo afghano, in questo tempo così difficile, ha bisogno di ricostruire l’armonia, di alzare il suo grido, come Paolo VI all’Onu nel 1965: «Non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei popoli e dell’intera umanità!». Le armi non sono mai la soluzione. Lo ricorda in particolare Giovanni Paolo II nel messaggio, nel 1991, al presidente iracheno Saddam Hussein: «Nessun problema internazionale — scrive — può essere adeguatamente e degnamente risolto col ricorso alle armi». Al presidente statunitense, il Pontefice polacco chiede di non risparmiare sforzi per «evitare decisioni che sarebbero irreversibili». Le parole di Papa Wojtyła non vengono ascoltate. Prevale, invece, la voce delle armi e il 17 gennaio del 1991 ha inizio l’operazione “Desert Storm”. L’opzione militare ancora una volta aggiunge sofferenze, dolore.
Il popolo afghano oggi non può andare avanti senza una vera pace, che come ha ricordato Benedetto XVI nel 2013, è un «dono di Dio» ed anche «opera dell’uomo»: «la realizzazione della pace dipende soprattutto dal riconoscimento di essere, in Dio, un’unica famiglia umana». Volgendo lo sguardo verso Kabul, Papa Francesco il 15 agosto del 2021 lancia un appello all’Angelus: «Cessi il frastuono delle armi e le soluzioni possano essere trovate al tavolo del dialogo. Solo così la martoriata popolazione di quel Paese — uomini, donne, anziani e bambini — potrà ritornare alle proprie case, vivere in pace e sicurezza nel pieno rispetto reciproco». Solo così il popolo afghano potrà percorrere vie di pace, vie di fraternità.
di AMEDEO LOMONACO